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Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cc. e risarcimento del danno. Le Tabelle milanesi


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Laddove il lavoratore assuma di aver contratto una malattia professionale o un infortunio sul lavoro, può agire in giudizio per il risarcimento del danno, ex art. 2087 c.c., patito come conseguenza di una violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza.

Tali obblighi gravano sul datore di lavoro in forza del disposto dell’ art. 2087 c.c , il quale impegna il titolare del rapporto ad assicurare condizioni di lavoro volte a garantire l’integrità psico-fisica del lavoratore.

L’approfondimento affronta le questioni pertinenti all'azione di risarcimento del danno da malattia professionale o infortunio sul lavoro derivante da responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cc.

 

1) Gli obblighi di sicurezza che gravano sul datore di lavoro e la sua responsabilità ex art. 2087 c.c.

Il lavoratore, che assuma di aver contratto una malattia o subito un infortunio per lo svolgimento della prestazione lavorativa, può agire nei confronti del datore di lavoro laddove ritenga che il danno eventualmente patito sia conseguenza di una violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza scaturenti e gravati sul medesimo in forza del disposto dell’art. 2087 c.c.

Nella domanda di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro, trattandosi di responsabilità contrattuale, il riparto dell’onere probatorio è regolato dall’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni: ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno e il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione; il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 c.c. e, quindi, di aver apprestato tutte le misure per evitare il danno medesimo.

Con riferimento a tutti e tre gli elementi sopra indicati la parte ricorrente è tenuta ad assolvere gli oneri di prova, senza possibilità di saltare uno dei passaggi o di invertirne la successione; ne deriva che il richiedente non può limitarsi ad allegare e provare che si sono verificate effettive conseguenze dannose se non ha provato anche l’esistenza di un fatto illecito e del nesso causale.

Tale impostazione opera anche in presenza del disposto dell’art. 2087 c.c., obbligazione di sicurezza che non legittima il lavoratore ad effettuare un mero rinvio alla stessa per ritenere assolto l’onere della prova dell’esistenza di un fatto illecito. In altre parole, un generico rinvio all’art. 2087 c.c. non consente al lavoratore di sovvertire la regola processuale che fa gravare su di lui l’onere di indicare la violazione che si lamenta.

Secondo l’insegnamento dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione: “Ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c. - la quale non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva - al lavoratore che lamenti di aver subìto, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.” (Cass. civ., sez. lav., 18-06-2014, n. 13860; ed ancora si veda C. Stato, sez. VI, n. 1282/2015; Cass. sez. lav., n. 3650/2006; Cass. sez. lav., n. 7792/98).

Dunque, l’art. 2087 c.c. non fonda una ipotesi di responsabilità oggettiva sicché il lavoratore, che pretenda di essere risarcito per il danno subito in conseguenza di un infortunio, è soggetto all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che il datore di lavoro ha posto in essere un comportamento contrario a norme inderogabili di legge o alle misure che nell’esercizio dell’impresa debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, dovendosi escludere che il datore di lavoro sia responsabile di un infortunio solo perché accaduto durante lo svolgimento di attività lavorativa e non potendosi desumere automaticamente l’inadeguatezza delle misure di protezione solo dal fatto del verificarsi del danno.

Tale impostazione sottolinea, quindi, che l’obbligazione di sicurezza non legittima di per sé il lavoratore ad effettuare un mero rinvio alla stessa per ritenere assolto l’onere della prova dell’esistenza di un fatto illecito.

La più recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, secondo un indirizzo costante, ritiene che la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore “discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua, formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori.” (Cass. civ. sez. lav., n. 10145/2017).

Ed ancora: “L'art. 2087 c.c., nella misura in cui costruisce quale oggetto dell'obbligazione datoriale un facere consistente nell'adozione delle «misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro», permette di imputare al datore di lavoro non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell'evento concreto che in fatto si è cagionato, cioè quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire quel particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso). (Cass. civ. sez. lav., n. 12347/2016).

Ciò posto, dunque, la responsabilità per violazione di obblighi è configurabile esclusivamente nel caso in cui il comportamento del debitore costituisca inadempimento di una regola di condotta preesistente al fatto lesivo e, quindi, quando il datore di lavoro abbia violato una misura di sicurezza espressamente prevista dalla legge o, comunque, individuata e/o individuabile prima dell’evento dannoso.

 

2) Gli oneri di allegazione e prova che gravano sul lavoratore.

Si è già detto che nessun dubbio può esserci sul fatto che a colui che invoca una tutela risarcitoria è imposto l’onere di allegare e fornire elementi di prova con riferimento ai seguenti aspetti: l’esistenza di un illecito; l’esistenza di un danno; l’esistenza di un nesso causale tra il primo ed il secondo.

Con riferimento alla tutela risarcitoria, la parte richiedente non può limitarsi ad allegare e provare che si sono verificate effettive conseguenze dannose se non ha provato anche l’esistenza di un fatto illecito e del nesso causale.

Secondo principi pacifici espressi dalla giurisprudenza di legittimità: “Il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro, seppure non è tenuto a provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall’art. 1218 c.c., è pur sempre onerato della prova del fatto costituente l’inadempimento e del nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno”. (Cass. civ. ord. Sez. lav. n. 4970/2017)

Dunque, solo quando tale onere sarà stato assolto dal lavoratore sarà il datore di lavoro a dover dimostrare di aver adottato le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Laddove difetti l’assolvimento dell’onere di allegazione e prova che grava sul lavoratore richiedente, non potrà darsi accesso alla tutela risarcitoria.

Per tale profilo, vale altresì ricordare che nel processo del lavoro il ricorrente deve, nel ricorso introduttivo della lite, inserire gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, sicchè in caso di mancata specificazione od indicazione di detti elementi gli stessi non possano più trovare ingresso nel processo con conseguente impossibilità di rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati né specificati in ricorso, in quanto la decadenza dalle prove riguarda non solo il convenuto, ma anche l'attore, dovendo ambedue le parti, in una situazione di istituzionale parità, esternare sin dall'inizio tutto ciò che attiene alla loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze.

Il rito del lavoro si caratterizza per una circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, donde l'impossibilità di contestare o richiedere prova - oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito - su fatti non allegati nonchè su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano state esplicitate in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo.

Particolarmente, pertinente risulta la seguente pronuncia della Suprema Corte per cui: “Con riguardo alla domanda di equo indennizzo, grava sul lavoratore l’onere di provare, con precisione, i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’infermità alle modalità di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita, variabili in relazione al luogo di lavoro, ai turni di servizio, all’ambiente lavorativo, non configurando, le mansioni inerenti alle qualifiche, un fatto notorio che non necessita di prova, atteso che esse sono variabili in dipendenza del concreto posto di lavoro, della sua localizzazione geografica, dei turni di servizio, dell’ambiente in generale, essendo assolutamente irrilevante che la controparte non abbia contestato, con la comparsa di costituzione in primo grado, le modalità della prestazione lavorativa allorquando dette modalità non siano state precisate; inoltre, nelle patologie aventi carattere comune ad eziologia c.d. multifattoriale, il nesso di causalità fra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio (nella specie la corte ha ritenuto corretta la valutazione di genericità di allegazione e, quindi, della mancanza di prova del nesso causale tra le concrete modalità delle mansioni svolte dal lavoratore delle ferrovie dello stato e l’evento lesivo che ne aveva causato il decesso). (Cass. sez. lav. n.14192/2009).

Eventuali carenze di allegazione rendono il ricorso inammissibile e ne impongono il rigetto.

Il Tribunale di Roma nella pronuncia n. 1585 del 17.02.2016, in ossequio a detti principi, ha rigettato la domanda di risarcimento proposta sul presupposto che: “Alla luce di tali autorevoli indicazioni – che si condividono – incombe sulla parte ricorrente l’onere di dedurre e dimostrare la natura dell’attività lavorativa svolta, l’esposizione all’amianto, nell’ambiente di lavoro, con specifica indicazione dei relativi tempi di esposizione e delle pause fisiologiche (quali ferie, riposi e festività), nonché dei valori di amianto presenti nell’ambiente stesso”.

Precisa ancora il Tribunale: “L’atto introduttivo del presente giudizio, in primo luogo, deduce genericamente l’attività di Mario Francione, laddove riferisce che il medesimo ha svolto “….le proprie mansioni presso il deposito locomotive di Milano Centrale dal 1961 come aiuto macchinista e successivamente trasferito presso il deposito locomotive di Pavia. Nel 1968 è passato nel ruolo di macchinista fino al 1990, poi in seguito andato in pensione (senza ulteriori precisazioni). Inoltre manca (nel ricorso) precisa descrizione dell’ambiente nel quale ha operato il Francione nel corso del rapporto dedotto (con particolare riguardo alla presenza di amianto ed alla relativa quantità), e manca altresì indicazione della quantità di prestazioni rese dal medesimo (con le relative pause fisiologiche). I predetti elementi (relativi all’ambiente di lavoro), neppure risultanti dagli allegati, non sono acquisibili attualmente tramite CTU (in relazione al tempo trascorso) e comunque il Giudice non è chiamato – attraverso la CTU e gli ordini di esibizione ed informazioni ex artt. 201 e 213 cpc, richiesti dai ricorrenti – a sopperire agli inadempimenti dei preminenti oneri di deduzione e prova posti ex lege a carico dei medesimi.”

Ne discende, quindi, che gli oneri di allegazione e prova di cui è gravata la parte che agisce per conseguire un eventuale risarcimento del danno, sul presupposto della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087, non sono superabili e debbono essere assolti puntualmente.

 

3) La prova del danno subito. Il danno non patrimoniale e l’esclusione di duplicazioni risarcitorie.

Passando all’esame dei danni che possono essere lamentati dal richiedente questi possono essere sia di natura patrimoniale che non.

Deve ribadirsi che, sulla base dei principi espressi dalla Suprema Corte: “Le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l’attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo.”. (Cass. n. 691/2012)

Quindi, anche il danno deve essere allegato e provato. Con particolare riferimento ad un eventuale danno non patrimoniale che il richiedente lamenti è noto che i Giudici di legittimità, con i principi espressi nelle sentenze gemelle delle Sezioni Unite n. 26972/2008 e n. 26973/2008, hanno ben chiarito che il danno non patrimoniale è una categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Tale suddivisione, afferma ancora la S.C., è possibile a meri fini descrittivi ma resta compito del Giudice accertare la effettiva consistenza del pregiudizio allegato, individuando quali ripercussioni negative sul valore uomo si siano verificate e provvedendo alla integrale riparazione.

La recente sentenza di Cassazione sez. III Civile, sentenza 6 luglio – 21 settembre 2017 n. 21939, nelle sue motivazioni ribadisce ancora una volta che la categoria generale del danno non patrimoniale, attinente alla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da valore di scambio, presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti (meglio definite voci) aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel paterna d’animo o sofferenza interiore subiti dalla vittima dell’illecito, ovvero nella lesione arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana), quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato), dei quali, ove essi ricorrano cumulativamente, occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell’integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce) venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 1361 del 23/01/2014, Rv. 629364 - 01).

Muovendo, quindi, dalla considerazione del danno alla salute (o biologico), il compito cui è chiamato il giudice ai fini della relativa liquidazione, va distinto concettualmente in due fasi: la prima, volta a individuare le conseguenze ordinarie inerenti al pregiudizio, cioè quelle che qualunque vittima di lesioni analoghe subirebbe la seconda, volta a individuare le eventuali conseguenze peculiari, cioè quelle che non sono immancabili, ma che si sono verificate nel caso specifico.

Le prime vanno monetizzate con un criterio uniforme; le seconde con criterio ad hoc scevro da automatismi (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 16788 del 13/08/2015). Da tali premesse discende che, ai fini della c.d. personalizzazione del danno non patrimoniale, spetta al giudice far emergere e valorizzare, in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, le specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari.

Nel caso della sentenza richiamata, il giudicato cassato (Corte d’appello di Roma), nel considerare l’opportunità di provvedere a una più adeguata personalizzazione del danno non patrimoniale, si era erroneamente riferito all’apprezzamento di circostanze solo asseritamente personalizzanti trascurando di procedere all’opportuna articolazione analitica di dette voci attraverso la valorizzazione dei profili di concreta riferibilità e inerenza alla personale, specifica e irripetibile, esperienza di vita del danneggiato, potendo astrattamente riferirsi, ciascuna delle voci richiamate nella motivazione della sentenza impugnata, a qualunque altro soggetto che fosse ordinariamente incorso nelle medesime conseguenze lesive. Una simile modalità di personalizzazione del danno non patrimoniale (incline ad aggiungere poste risarcitorie per ogni conseguenza che di regola segue quel particolare tipo di lesioni) non può che tradursi in un’inevitabile (e inammissibile) duplicazione risarcitoria.

La Corte ha, quindi, affermato il seguente principio: "Con riguardo alla liquidazione del danno non patrimoniale, ai fini della c.d. personalizzazione del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono ritenersi destinati alla riparazione delle conseguenze ordinarie inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, le specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari; da queste ultime distinguendosi siccome legate all’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un’ottica che, ovviamente, superi la dimensione economicistica dello scambio di prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità".

In sostanza, il giudice, nel procedere alla personalizzazione del danno non patrimoniale non può apprezzare delle circostanze che sono individuate genericamente e sono solo asseritamente personalizzanti, senza valutarle in maniera analitica né valorizzare i loro profili di concreta riferibilità e inerenza all'esperienza di vita effettiva del danneggiato. Per l’effetto, è inammissibile la duplicazione risarcitoria e, per la liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice che ricorre al meccanismo della personalizzazione deve valorizzare "dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale" le circostanze di fatto specifiche e peculiari che "valgano a superare le conseguenze 'ordinarie' già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari". Dunque, il danno non patrimoniale va risarcito ma senza duplicazioni.

 

3.1) Il danno iure hereditatis

Ulteriore profilo da esaminare è quello che attiene alla domanda di danno biologico iure hereditatis. La giurisprudenza prevalente, sia della Suprema Corte che delle corti di merito, sulla scorta della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 372/94, riconosce la risarcibilità del danno iure hereditatis per chi, in conseguenza delle lesioni patite, sia deceduto dopo un apprezzabile lasso di tempo.

Nel caso in cui la morte sia immediata è da escludersi la configurabilità del danno biologico in quanto la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, incidendo sul diverso bene giuridico della vita.

La risarcibilità di tale danno presuppone che la vittima resti in vita per un periodo apprezzabile, perché solo nell’arco temporale tra la lesione e la morte, l’infortunato subisce una effettiva compromissione del diritto alla salute ed il relativo diritto si trasferisce agli eredi.

Ciò, dunque, colloca la morte del soggetto fuori dal danno biologico, in quanto il danno alla salute presuppone pur sempre un soggetto in vita.

In conclusione, secondo la giurisprudenza dominante, la lesione al bene della vita non è risarcibile agli eredi, residuando quale voce che i medesimi possono invocare, iure hereditatis, il danno alla salute subito dal loro congiunto.

La Suprema Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015, ha posto definitivamente fine al contrasto giurisprudenziale in merito al danno tanatologico confermando l’orientamento giurisprudenziale costante che nega tale risarcimento. Secondo le Sezioni Unite: “nel caso di morte immediata o che segue entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni si ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis”.

La Corte precisa: “Nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente (cass. N. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione della quale sia derivata la morte, diverse essendo ovviamente le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi (Corte cost. n. 372 del 1994; cass. N. 4991 del 1996; n. 1704 del 1997; n. 3592 del 1997; n. 5136 del 1998; n. 6404 del 1998; n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 2134 del 2000; n. 517 del 2006, n. 6946 del 2007, n. 12253 del 2007). E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. N. 6938 del 1998, poiché, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (cass. n. 4991 del 1996)”.

Nulla può, in sostanza, essere riconosciuto a titolo di liquidazione del danno da morte (tanatologico). Per il resto la Suprema Corte ha confermato la risarcibilità dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi suscettibile di trasmissione agli eredi.

Precisando che: “L’unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con “mera sintesi descrittiva” (cass. n. 26972 del 2008), è indicato come “danno biologico terminale” (cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n. 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) – liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno – e, da altro orientamento, è classificato come danno “catastrofale” (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno “catastrofale”, inoltre, per alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n. 13537 del 2014) e per altre, di danno biologico psichico (cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011). Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni perché, come già osservato, anche in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l’utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale”.

In realtà, come indicato dalla Suprema Corte, trattasi di distinzione meramente descrittiva e qualificatoria del medesimo danno scaturente dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo che non potrà essere certo risarcito due volte.

In ogni caso, si richiama ancora Cass. civ., sez. III, 31-10-2014, n. 23183 per cui: “In caso di sinistro mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della «enormità» del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (nella specie la suprema corte ha respinto il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva liquidato in via equitativa, quale danno biologico terminale patito dalla vittima, rimasta in vita 7 giorni, la somma di euro 2.500,00 pro die).”

E ciò a riprova del fatto che al danno biologico terminale, commisurato, tuttavia, alla sola invalidità temporanea totale, può in questo caso sommarsi una componente psichica per la sofferenza patita.

Principi ulteriormente confermati nella pronuncia della Suprema Corte n. 22451 del 2017 laddove conferma: “I danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, trasmissibili "jure hereditatis", possono pertanto consistere: a) nel "danno biologico" (cd. "danno terminale") determinato dalla lesione al bene salute quale danno-conseguenza consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino all'exitus: l'accertamento del danno-conseguenza e' questione di fatto e presuppone che le conseguenze pregiudizievoli si siano effettivamente prodotte, necessitando a tal fine che tra l'evento lesivo e il momento del decesso sia intercorso un "apprezzabile lasso temporale" (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1877 del 30/01/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15491 del 08/07/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 22228 del 20/10/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 23183 del 31/10/2014); b) nel "danno morale cd. soggettivo" (cd. "danno catastrofale"), consistente nello stato di sofferenza spirituale od intima (paura o paterna d'animo) sopportato dalla vittima nell'assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso l'ineluttabile fine-vita: anche in questo caso, trattandosi di danno-conseguenza, l'accertamento dell' "an" presuppone la prova della "cosciente e lucida percezione" dell'ineluttabilita' della propria fine e (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6754 del 24/03/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 7126 del 21/03/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 13537 del 13/06/2014); c) rimane invece esclusa la risarcibilita' del danno consistente nella "perdita del bene-vita" (cd. "danno tanatologico"), autonomo e diverso rispetto al bene-salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicche', ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilita' "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilita' di uno spazio di vita brevissimo (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015 che compone in tal modo il contrasto giurisprudenziale insorto dopo il precedente contrario di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1361 del 23/01/2014) “. (si veda anche Cass. sez. lav. n. 20922/2016)

Dunque, va riconosciuto agli eredi del de cuius la liquidazione del c.d. danno biologico terminale qualora tra il fatto lesivo e il decesso sia intervenuto un lasso di tempo apprezzabile e rilevante, con riferimento ai danni subìti dalla vittima nel periodo di permanenza in vita.

Il danno biologico terminale, quindi, si identifica quale danno alla salute che interviene, sia pur in maniera temporanea, tra l’evento lesivo ed il decesso. Nello specifico la liquidazione del danno biologico terminale deve ancorarsi alla inabilità temporanea e non, invece, al danno biologico permanente perché la malattia si è risolta con la morte dell’individuo cui, può sommarsi unicamente una componente di sofferenza psichica (cd. danno catastrofale) soggetta ad una personalizzazione a seconda dell’intensità della sofferenze. Nessuna ulteriore duplicazione di danni è consentita.

 

4) La liquidazione del danno secondo le tabelle milanesi.

Di particolare interesse, sotto il profilo della liquidazione del danno, risultano le nuove tabelle elaborate dall’Osservatorio sulla Giustizia del Tribunale di Milano del 2018, tabelle che sono sempre state un punto di riferimento per la liquidazione del danno biologico.

Le nuove tabelle, in recepimento dei principi sopra richiamati e nell’ottica di individuare un criterio unitario di liquidazione, stabiliscono che il danno biologico terminale ed il danno da lucida agonia sono da considerarsi sottocategorie del “danno terminale” che appunto può essere richiesto quando tra le lesioni e la morte ad esse conseguenti intercorre un apprezzabile lasso di tempo.

Nel rispetto del principio sancito dalle Sezioni Unite n. 26972/2008 il danno terminale ricomprende, quindi, al suo interno sia gli aspetti biologici che di sofferenza al fine di evitare duplicazioni risarcitorie.Dalla liquidazione deve essere esclusa la separata liquidazione del danno biologico temporaneo, poichè assorbita dalla voce principale. Viene, inoltre, stabilito un intervallo massimo convenzionale di 100 giorni al di là del quale il danno terminale non può prolungarsi tornando ad essere risarcibile il solo danno biologico temporaneo ordinario standard.

L’Osservatorio precisa poi che per intervallo di tempo apprezzabile deve intendersi uno spazio temporale sufficiente affinchè si maturi una sofferenza psicologica non istantanea né immediatamente consumatasi, non configurandosi in ogni caso un danno in re ipsa ma occorrendo la comprovata percezione della fine imminente (esclusa ad esempio in caso di incoscienza della vittima).

Vale, peraltro, osservare che le richiamate Tabelle evidenziano che la percezione della fine possa intervenire anche in un momento successivo e solo da quel momento potrà sorgere il danno terminale (con relativa decorrenza della tabella giornaliera prevista). Viene, altresì, applicato il criterio tratto dall’esperienza medico legale che il danno tende a decrescere con il passare del tempo, posto che il momento di massima sofferenza è il periodo immediatamente successivo all’evento lesivo, mentre nei giorni successivi il dolore comincia a decrescere e ad essere più sopportabile anche in ragione dell’adattamento naturale alla situazione.

In tale ottica è stato posto un modello in cui vi è differenza nel calcolo della liquidazione tra i primi tre giorni ed i successivi novantasette. Per questo le Tabelle di Milano introducono un valore risarcitorio massimo per i primi tre giorni di €. 30.000 (non aumentabile), mentre per i successivi 97 valori decrescenti giornalieri da €. 1000,00 a €. 98,00, valore quest’ultimo corrispondente a quanto stabilito dalla Tabella per il danno biologico temporaneo standard (inabilità temporanea).

Per il periodo eventualmente superiore ai 100 giorni convenzionali tornerà ad essere risarcibile il danno biologico temporaneo standard (€. 98,00 giornaliere). I valori dal 4 giorno in poi sono, comunque, personalizzabili in base alle circostanze del caso concreto ed alla prova rigorosa del danno fino al massimo del 50%.

Per quanto riguarda la liquidazione del danno biologico si privilegia una liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale” sia nei suoi risvolti anatomo funzionali e relazionali medi o peculiari, e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione con possibilità del giudice di aumentare o ridurre l’entità degli importi secondo la fattispecie concreta dovendo comunque sempre congruamente motivare la sua decisione.

Analogo criterio è indicato dall’Osservatorio per la liquidazione del danno biologico e morale temporaneo proponendo una liquidazione congiunta dell’intero danno non patrimoniale “temporaneo” derivante da lesione alla persona. Si prevede un valore monetario di liquidazione del danno non patrimoniale per un giorno di inabilità assoluta di €. 98,00 personalizzabili in base alle circostanze del caso concreto ed alla prova rigorosa del danno fino al massimo del 50%.

Infine, per quanto riguarda la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale (per morte del congiunto) le Tabelle ripropongono una liquidazione che prevede una forbice tra una liquidazione minima (pur non esistendo un minimo garantito) ed un massimo pur sempre legata ad oneri di allegazione prova che gravano sulla parte richiedente, la cui prova può essere fornita anche in via presuntiva.

Non esiste, dunque, un “minimo garantito” da liquidarsi in ogni caso: il giudice deve valutare caso per caso e la parte è comunque gravata dagli oneri di allegazione e prova del danno non patrimoniale subito.

I valori indicati in tabella sono quelli medi che, di regola, la prassi giurisprudenziale ha ritenuto congruo ristoro compensativo nei rispettivi casi di decesso e relazioni parentali ivi previsti.

La misura massima di personalizzazione prevista in tabella deve essere, invece, applicata dal giudice solo laddove la parte, nel processo, alleghi e rigorosamente provi circostanze di fatto da cui possa desumersi il massimo sconvolgimento della propria vita in conseguenza della perdita del rapporto parentale.

In ogni caso, resta fermo il dovere di motivazione da parte del giudice dei criteri adottati per graduare il risarcimento nei limiti di Tabella o al di fuori di quest’ultima.

Avv. Cristiana Pilo - Fieldfisher