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Cassazione: nell’anzianità contributiva del dipendente con contratto part-time ciclico deve essere computato anche il periodo non lavorato


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Con la sentenza n. 10526 del 03.05.2018, la Cassazione afferma la sussistenza del diritto dei prestatori, con contratto part-time ciclico, all'inclusione anche dei periodi non lavorati nell'anzianità contributiva, posto che gli stessi discendono dalla normale esecuzione del rapporto a tempo parziale e non dalla sua sospensione (sul punto si veda anche: Cassazione: il periodo non lavorato nel part-time verticale deve essere computato ai fini dell’anzianità contributiva).

Il fatto affrontato

La lavoratrice ricorre giudizialmente contro l’INPS, al fine di vedersi riconosciuta l'anzianità contributiva per 52 settimane per tutti gli anni durante i quali aveva lavorato in regime di part-time verticale, con accredito dei soli contributi effettivamente versati distribuiti nell'arco dell'anno secondo un regime di continuità del rapporto.

La sentenza

La Cassazione, richiamando una sentenza della Corte di Giustizia Europea, che aveva evidenziato come la normativa italiana in materia contrastasse con la direttiva n. 97/81, afferma che il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo parziale ed a tempo pieno implica che l'anzianità contributiva utile ai fini della determinazione della data di acquisizione del diritto alla pensione sia calcolata per il lavoratore con rapporto a tempo parziale ciclico come se egli avesse occupato un posto a tempo pieno, prendendo integralmente in considerazione anche i periodi non lavorati.
Ciò in quanto il lavoro a tempo parziale costituisce un modo particolare di esecuzione del rapporto, caratterizzato dalla mera riduzione della durata normale del lavoro.
Conseguentemente i periodi non lavorati, che corrispondono alla riduzione degli orari di lavoro contrattualmente prevista nel part-time, discendono dalla normale esecuzione di tale contratto e non dalla sua sospensione.

Diversamente, secondo i Giudici di legittimità, si finirebbe per porre in essere una discriminazione.
Infatti, a fronte di una durata equivalente del proprio contratto di lavoro, il prestatore a tempo parziale maturerebbe l'anzianità contributiva utile ai fini della pensione con un ritmo più lento del collega a tempo pieno, con un trattamento deteriore e discriminatorio per i dipendenti part-time che, per il solo fatto di lavorare a tempo parziale, vedrebbero differire nel tempo la data di acquisizione del loro diritto alla pensione.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall’INPS, affermando la sussistenza del diritto della lavoratrice, con contratto part-time ciclico, all'inclusione anche dei periodi non lavorati nell'anzianità contributiva, incidendo la contribuzione ridotta sulla misura della pensione e non sulla durata del rapporto di lavoro.

A cura di Fieldfisher