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AIDC: effetti reddituali della remissione del TFM da parte dell’amministratore.


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Con la norma di comportamento n. 201 del 1.02.2018, l’AIDC ha formulato alcune considerazioni in ordine alla rilevanza fiscale della rinuncia al trattamento di fine mandato - TFM da parte dell’amministratore. La tesi sostenuta dall’AIDC si pone in contrasto con la posizione recentemente assunta dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 124/E del 13 ottobre 2017.

Ai fini fiscali, il compenso percepito dall’amministratore a titolo di trattamento di fine mandato è qualificato come reddito assimilato a quello derivante dal lavoro dipendente, fatte salve alcune eccezioni. L’assoggettamento a tassazione di tale reddito si realizza, in base al principio "di cassa", nel momento della sua percezione. Al contrario, la mancata percezione del compenso non manifesta alcuna capacità contributiva e, di conseguenza, non comporta il manifestarsi di alcun presupposto impositivo.

Quanto previsto fiscalmente è in contrasto con il dettame costituzionale. Il presupposto impositivo si realizza, invece, quando, pur in assenza dell’incasso monetario, la rinuncia al credito vantato dall’amministratore sia indirettamente collegata a una controprestazione di qualsiasi natura (in forma di beni o servizi differenti dal denaro), ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo all’amministratore.

In conclusione, si deve affermare che dalla mera remissione della posizione creditoria non può conseguire una presunzione automatica di incasso dei relativi importi, conseguenza che si determina solo nell’ipotesi in cui si realizzi un incremento patrimoniale o reddituale oggettivamente riconoscibile e fiscalmente riconosciuto.

Si assuma, a tal fine, che la mera remissione del debito dell’amministratore al trattamento di fine mandato intervenga dopo che la società abbia dedottole quote del trattamento di fine mandato, imputate a conto economico a titolo di accantonamento, senza che si sia prodotto alcun effetto reddituale in capo all’amministratore.

Al riguardo, si distingue tra l’altro l’ipotesi di amministratore non socio da quello socio:

- se l’amministratore non è socio la mera remissione del debito non comporta su di lui alcun beneficio e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. Conseguentemente, non si determina alcun effetto reddituale in capo all’amministratore e la società, a fronte del costo precedentemente dedotto, realizza una sopravvenienza attiva imponibile,ai sensi dell’art. 88, comma 1 del Tuir.

- se l’amministratore è socio la mera remissione del debito non comporta su di lui alcun beneficio e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. La mancata percezione rende l’operazione fiscalmente ininfluente per l’amministratore, ancorché socio, in quanto non gli attribuisce alcun vantaggio economico. Il credito così rinunciato ha un valore fiscale nullo in quanto la fattispecie reddituale sottostante non ha mai concorso a formare la base imponibile del reddito dell’amministratore. Ne consegue che, per l’amministratore, la rinuncia del credito non comporta un incremento del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Per quanto riguarda la società, che imputa a una posta di patrimonio netto l’ammontare del credito rinunciato dall’amministratore socio, trova applicazione l’art. 88, comma 4-bis del Tuir, con la determinazione di una sopravvenienza attiva imponibile da assoggettare a imposizione mediante una corrispondente variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi.

Quanto sopra è conforme alla volontà del legislatore, che ha introdotto il comma 4 bis dell’art. 88 del Tuir proprio al fine di assicurare l’uniformità di trattamento alle diverse ipotesi di rinuncia dei crediti dei soci.

Fonte: Associazione Italiana Dottori Commercialisti