Un mercato del lavoro mobile e con sempre meno giovani. I lavoratori giovani in Italia sono diventati una rarità. Nel decennio 2012-2022 gli occupati 15-34enni sono diminuiti del 7,6% e quelli con 35-49 anni del 14,8%, mentre i 50-64enni sono aumentati del 40,8% e quelli con 65 anni e oltre del 68,9%. I lavoratori invecchiano e in futuro ce ne saranno sempre meno: si stima che nel 2040 le forze di lavoro nel complesso saranno diminuite dell’1,6%, come esito della radicale transizione demografica che il Paese sta vivendo.
Dimissioni - Intanto, nei primi nove mesi del 2022 ogni giorno in media 8.500 italiani si sono dimessi dal lavoro: il 30,1% in più rispetto allo stesso periodo del 2019, prima della pandemia. Nello stesso periodo, ogni giorno in media 49.500 italiani hanno iniziato un nuovo lavoro: il 6,2% in più rispetto al 2019. Sono numeri che fotografano un mercato del lavoro molto dinamico, in cui la ricerca di una occupazione migliore (che per i giovani significa meno precaria) è la bussola che orienta le decisioni e i comportamenti.
Gap di genere - La fascia della precarietà è infatti ancora ampia: complessivamente, il 21,3% dei lavoratori italiani è occupato con forme contrattuali non standard (tempo determinato, part-time, collaborazioni). La percentuale oscilla dal 27,9% delle lavoratrici donne (rispetto al 16,5% degli uomini) al 39,3% dei lavoratori 15-34enni. Tra gli occupati giovani, la percentuale dei contratti non standard raggiunge il 46,3% tra le femmine, rispetto al 34,2% dei maschi. Il part-time involontario, con meno ore lavorate e quindi retribuzioni più basse, coinvolge il 10,3% dei lavoratori italiani: il 16,7% delle donne (rispetto al 5,7% degli uomini) e il 13,9% dei 15-34enni. Tra gli occupati giovani, la percentuale del part-time involontario raggiunge il 20,9% tra le femmine e si ferma al 9,0% tra i maschi. La precarietà è giovane e ancor più donna, e alimenta una parte significativa della mobilità nel mercato del lavoro.
E' la fotografia scattata da Censis nel IV Rapporto sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon con il contributo di Credem, Edison e Michelin.
La mobilità - Se potesse, il 46,7% degli occupati italiani lascerebbe l’attuale lavoro. Lo farebbero il 50,4% dei giovani e il 45,8% degli adulti, il 58,6% degli operai, il 41,6% degli impiegati e solo il 26,9% dei dirigenti. Anche perché il 64,4% degli occupati dichiara di lavorare solo per ricavare i soldi necessari per vivere e fare le cose che piacciono, senza altre motivazioni esistenziali. Questo vale in particolare per il 69,7% dei giovani e per il 75,6% degli operai. Quali sono le ragioni dell’inquietudine che avvolge il rapporto con il proprio lavoro? Innanzitutto, le difficoltà di carriera: per il 65,0% degli occupati le opportunità di avanzamento professionale sono insufficienti. In secondo luogo, le retribuzioni insoddisfacenti: il 44,2% degli occupati considera lo stipendio percepito non adeguato alle proprie esigenze (vale di più per i giovani: il 53,0%). C’è poi la paura di perdere il posto di lavoro: teme di potersi ritrovare disoccupato nel prossimo futuro il 42,6% dei lavoratori (il dato aumenta al 51,6% tra gli addetti delle piccole imprese, rispetto al 34,9% di quelli assunti nelle grandi aziende).
Smart working promosso, se alternato con il lavoro in presenza - Lavora da remoto il 12,2% degli occupati (la percentuale era pari al 4,9% nel 2019). Il lavoro da casa piace perché per l’81,3% consente una migliore conciliazione tra famiglia, vita privata e lavoro, per il 74,8% riduce lo stress legato al lavoro in presenza, per il 74,1% permette di lavorare in contesti migliori del luogo di lavoro deputato, per il 70,4% migliora più in generale la qualità della vita. Però, per il 72,4% il giudizio è positivo solo se lo smart working è alternato con giorni di lavoro in presenza. Per il 71,8% non è vero che in smart working si lavora di meno. Per il 52,8% si generano anzi benefici anche per i datori di lavoro. Per il 75,9% fa risparmiare le aziende, perché si trasferiscono alcuni costi direttamente sui lavoratori (ad esempio, le bollette dell’energia), per il 65,1% si innalza la produttività del lavoro. C’è però un unico grande rischio: per il 54,4% si potrebbe erodere il senso di appartenenza aziendale.
Il welfare aziendale - Se le integrazioni del reddito sono largamente apprezzate, dal welfare aziendale i lavoratori si attendono anche un utile supporto per raggiungere una più alta qualità della vita. Il welfare aziendale sarà sempre di più uno strumento essenziale per i responsabili delle risorse umane per rimotivare chi è già in azienda e per attrarre nuovi lavoratori, in particolare i giovani. In merito alle tipologie di servizi e prestazioni maggiormente richieste, il 79,4% dei lavoratori desidera un supporto personalizzato, tagliato su misura rispetto alle proprie esigenze, il 79,2% chiede maggiori opportunità di conciliazione tra vita familiare e lavoro, il 79,1% integrazioni del reddito, il 78,0% un aiuto per risolvere i problemi burocratici nel rapporto con le amministrazioni pubbliche, il 68,1% una consulenza psicologica per affrontare le difficoltà quotidiane.
Fonte: Censis