Dallo smart working all’impiego dell’intelligenza artificiale nelle aziende. Ma anche l’ormai consueta difficoltà nel reperimento di personale. L’ indagine sul lavoro elaborata da Confindustria restituisce un contesto variegato. Si parte dall’ultimo punto. Il 67,8% tra le imprese che avevano in corso ricerche di personale al momento dell’indagine ha riportato di aver riscontrato difficoltà, una percentuale molto simile a quella rilevata un anno prima (69,8%). La quota di imprese che dichiarano difficoltà è più elevata nell’industria (72,9%) che nei servizi (61,3%) e cresce con la dimensione aziendale, dal 59,9% nelle imprese piccole, al 72,6% in quelle medie e al 78,9% nelle grandi.
Le maggiori problematiche emergono per le competenze tecniche (come per manutenzione, installazione e tecnologie, produzione, logistica, informatica di base, ecc.), segnalate da oltre la metà delle imprese con difficoltà di reperimento (57,1%). Risultano molto diffuse anche le difficoltà di reperimento per mansioni manuali (46,3%), soprattutto nell’industria (57,6% rispetto a 31,8% nei servizi).
Vi è poi quasi un quinto delle imprese (18,5%) che riportano difficoltà a reperire competenze trasversali. D’altronde anche le competenze digitali (per esempio, per progettazione, prototipazione, sviluppo infrastrutture digitali, sviluppo e gestione algoritmi, analisi dei dati, ecc.) risultano difficili da reperire per una quota simile di imprese (18,4%). Per queste due tipologie di competenze sono le imprese dei servizi a rilevarne la scarsità in maniera più frequente rispetto alle imprese dell’industria.
La gran parte delle imprese che segnalano difficoltà di reperimento (84,1%) intraprende azioni per farvi fronte. Tra le aziende che hanno indicato almeno una “contromisura” in atto, quella più diffusa risulta la formazione del personale attualmente in forza (56%), seguita dal ricorso a servizi esterni, come consulenze e collaborazioni (52,9%) e dall’allargamento del bacino di ricerca in termini di aree geografiche o metodologie di recruitment (40,2%).
il capitolo smart working, invece, si concentra su due periodi distinti di tempo, ovvero prima della pandemia e nel 2024. In generale, i risultati indicano che il lavoro agile è presente nel 32,3% delle imprese, una diffusione molto simile a quella stimata dalla rilevazione dello scorso anno. C’è quindi evidenza di una stabilizzazione dell’adozione di questa modalità di lavoro intorno a un terzo delle aziende – un livello quattro volte superiore rispetto al periodo pre-pandemico, quando poco più dell’8% delle imprese lo utilizzava.
Questa modalità di lavoro si conferma maggiormente diffusa nelle imprese dei servizi (39,6%) rispetto all’industria (26,7%), anche per la natura stessa dell’attività. La diffusione del lavoro agile, inoltre, rimane strettamente legata alla dimensione aziendale, essendo presente in meno di un quarto delle imprese piccole, con meno di 15 dipendenti (24,3%), in circa un terzo delle imprese medie, tra 16 e 99 dipendenti (34,4%), e in quasi due terzi delle imprese grandi, con più di 100 dipendenti (65,4%).
Passando ad analizzare l’intensità di utilizzo del lavoro agile risulta che, nelle imprese in cui esso è previsto, oltre un terzo dei dipendenti non dirigenti ha utilizzato tale modalità di lavoro (35,8%), senza differenze sostanziali tra il dato dell’industria (34,9%) e quello dei servizi (37,2%). Più nello specifico, l’8,3% dei dipendenti lo ha utilizzato per al massimo 1 giorno alla settimana (o 4 giorni al mese), il 17,7% ha scelto tale modalità per massimo 2 giorni alla settimana (o 8 giorni al mese), e il 9,7% per 3 o più giorni alla settimana (o 12 giorni al mese).
Infine l’uso dell’intelligenza artificiale, che sta entrando con sempre maggiore decisione nei processi produttivi e organizzativi delle imprese, anche se la capacità di assorbirne davvero il potenziale è ancora limitata. Secondo lo studio, quasi un’azienda su due è coinvolta a vario titolo in un percorso di trasformazione tecnologica che interessa soprattutto i servizi e le realtà di maggiore dimensione: l’11,5% utilizza o sta testando soluzioni basate su algoritmi avanzati, mentre il 37,6% ne sta valutando l’introduzione. Le applicazioni più diffuse riguardano analisi dei dati, marketing, ricerca e sviluppo, automazione e assistenza ai clienti: ambiti in cui l’IA sta contribuendo a ridefinire metodologie operative, strategie aziendali e organizzazione del lavoro.
Il quadro, però, non è privo di ombre. Meno della metà delle imprese che hanno avviato l’adozione dell’IA (43,7%) ha già messo mano ai processi interni per gestire l’impatto sulle risorse umane, in particolare attraverso percorsi di formazione interna, consulenze specializzate o assunzione di nuovi profili tecnici.
Molte aziende procedono quindi sul fronte tecnologico, ma restano indietro nell’aggiornamento delle competenze e nei piani di formazione. Non a caso, la carenza di competenze interne è indicata come la prima criticità (36,7%), seguita dalla complessità dell’integrazione nei processi esistenti e dai costi ancora elevati.
Sullo sfondo, il mismatch tra domanda e offerta di competenze continua a rappresentare una sfida, con il 67,8% delle imprese che dichiara difficoltà di reperimento dei profili adeguati. Si tratta ormai di un problema strutturale che si inserisce in un quadro dominato dalla rapidità dei cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie.
Si registra invece una fase di stabilizzazione per il lavoro agile, ormai adottato dal 32,3% delle aziende, mentre il welfare aziendale resta diffuso nel 55,3% delle realtà associate, con un utilizzo sempre più orientato al benessere dei lavoratori. La contrattazione aziendale, che oggi coinvolge quasi il 70% dei lavoratori del campione, si conferma uno dei principali strumenti attraverso cui le imprese gestiscono innovazione e flessibilità per accompagnare i processi di trasformazione organizzativa.
Fonte: Confindustria
