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Massimale contributivo : Pesanti le conseguenze della sua erronea applicazione


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Da qualche mese l’INPS ha attivato verifiche massive volte all’accertamento della corretta indicazione del massimale contributivo nei flussi comunicativi UniEmens. 

L’istituto è stato introdotto dall’art. 2, comma 18, Legge 335/1995. 

Esso prevede che, per i lavoratori assunti con decorrenza dal 1° gennaio 1996 e, dunque, privi di anzianità contributiva pregressa, i datori di lavori siano tenuti a versare la contribuzione obbligatoria entro un determinato “massimale”. Tale importo massimo è pari, per il 2021 a euro 103.055,00 (v. Circolare INPS n. 10 del 29 gennaio 2021). Nel 2020, esso era pari euro 102.953,00. 

Considerato che le verifiche dell’Inps si sono concentrate sugli anni a rischio di prescrizione e, dunque, sugli anni 2015 e 2016 può essere utile segnalare che il massimale contributivo in tali anni era pari a euro 100.324,00. 

In numerose fattispecie, l’INPS ha rilevato l’illegittima applicazione del massimale contributivo. 

Ne è conseguita l’emissione da parte dell’Istituto di massivi provvedimenti di recupero del credito, volti ad ottenere il versamento dei contributi sugli importi eccedenti il massimale. 

Eccedenze che, riguardando dirigenti, possono essere molto consistenti, con conseguente corposa quantificazione, per ciascun anno, dei contributi dovuti e delle sanzioni per omesso adempimento dell’obbligazione contributiva. 

A fronte di tali verifiche, la posizione dei datori di lavoro non è delle più rosee. 

Da un lato, essi devono versare i contributi omessi, seppur nei limiti della prescrizione quinquennale. 

Il datore di lavoro è, infatti, tenuto ex lege al versamento della contribuzione dovuta, sia per la propria quota che per quella del lavoratore in qualità di sostituto d’imposto (art. 19 legge 218/1952). 

Dall’altro lato, in caso di omissione contributiva, il datore di lavoro è direttamente responsabile a versare non solo la quota a proprio carico ma anche quella che sarebbe stata a carico del lavoratore (art. 23 Legge 218/1953), fermo restando – secondo la giurisprudenza – il diritto del datore di lavoro di agire in rivalsa nei confronti del lavoratore, ponendo a suo carico la quota contributiva di sua spettanza, in presenza di un inadempimento incolpevole (Cass. 6448/2009; Cass. 2701/1985). 

Dall’altro lato, è indubbio che l’illegittimo mancato versamento dei contributi sulle eccedenze configura la fattispecie dell’omissione contributiva, con ciò che ne consegue in termini di applicazione delle relative sanzioni civili di cui all’art. 16, comma 8, lett. a), Legge 388/2000. 

A fronte di ciò, alcune riflessioni appaiono utili. 

1. Alcune perplessità suscitate dalle pretese dell’INPS 

L’applicazione del massimale riguarda i lavoratori privi di anzianità contributiva ante 1996. L’art. 2, comma 18, Legge 335/1995 nulla dispone sulle modalità di accertamento della sussistenza o meno dell’anzianità contributiva del lavoratore cui si applica il massimale contributivo. 

Indicazioni sul punto sono state fornite dall’INPS con la Circolare n. 177 del 7 settembre 1996, in cui si legge: 

" i datori di lavoro dovranno acquisire una dichiarazione del lavoratore attestante l'esistenza o meno di periodi utili o utilizzabili ai fini dell'anzianità contributiva anteriori al 1° gennaio 1996.

In caso affermativo sottoporranno a contribuzione pensionistica l'intera retribuzione senza cioè applicare il massimale.

In caso di dichiarazione negativa ed in assenza di diverse risultanze eventualmente rilevate da altra fonte in possesso del datore di lavoro, quest'ultimo sottoporrà al prelievo contributivo ai fini pensionistici la sola quota di retribuzione sino al massimale annuo di L. 132 milioni annualmente rivalutabile”. 

Insomma, secondo l’INPS, il datore di lavoro deve, da un lato, “attivarsi” per raccogliere dal lavoratore una dichiarazione sulla sua anzianità assicurativa e, dall’altro, laddove riceva una dichiarazione negativa, verificare la veridicità delle informazioni ricevute mediante la consultazione di altre fonti in suo possesso. 

In sostanza, l’Istituto deresponsabilizza del tutto sé stesso ed il lavoratore per gravare unicamente il datore di lavoro della responsabilità di verificare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione del massimale. 

Difatti, in base alla Circolare citata, il datore di lavoro è l’unico soggetto cui può essere attribuita la responsabilità per l’errata applicazione del massimale anche laddove ciò dipenda da un comportamento del lavoratore. 

Avendo presentale tale impostazione, occorre chiedersi è se il datore di lavoro disponga e/o sia in grado di reperire autonomamente le informazioni utili per verificare la corretta applicazione, o meno, del massimale contributivo. 

La risposta negativa a tale domanda, costituisce la base per la formulazione di argomentazioni atte a contrastare la pretesa dell’INPS, quantomeno sotto il profilo della debenza delle sanzioni civili. 

Un ulteriore elemento che merita attenzione riguarda l’entità della anzianità contributiva ante 1996. 

L’interpretazione del disposto normativo e la ratio sottesa alla disciplina legislativa portano a ritenere che un giorno o un anno di anzianità contributiva ante 1996 non possano avere il medesimo valore ai fini dell’applicazione del massimale. 

Si rileva, infine, che alcuni provvedimenti notificati dall’INPS si prestano a critiche di carattere formale, in grado di sostenere la nullità dei medesimi, con i possibili effetti che ne possono derivare in termini di prescrizione. 

a cura di Silvia Lucantoni - Partner Fieldfisher