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I benefici della razionalizzazione dell’imponibile previdenziale e del potenziamento della previdenza contrattuale


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Rivisitare il rapporto retribuzione - previdenza per risolvere due problemi dell'attuale assetto lavoristico e delle relazioni industriali: riduzione del costo del lavoro; individuazione dei contratti leader per liquidare il fenomeno del dumping contrattuale potenziando la previdenza contrattuale. Questi, in estrema sintesi, i punti di una riforma sommariamente illustrata nella relazione svolta al XIX° congresso dell'Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale del 17 - 19 maggio 2018.

1. Il rapporto tra retribuzione e previdenza merita di essere rivisitato in una prospettiva più ampia di quella, tradizionale, relativa alla determinazione della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. La novità di maggior rilievo che coinvolge, oggi, quel rapporto, è costituita dall’avanzare della previdenza contrattuale (previdenza complementare, fondi sanitari integrativi, enti bilaterali e casse edili, “welfare aziendale” e territoriale, ammortizzatori sociali contrattuali): un fenomeno suscettibile di riattualizzare teorie - come quella del “salario previdenziale” - , evocative delle prime costruzioni fondative delle assicurazioni sociali, e prevalentemente abbandonate con riferimento alla previdenza obbligatoria. Il tema centrale che emerge da una siffatta prospettiva, è quello della corretta costruzione giuridica di una obbligazione che riveste, nel contempo, natura contrattuale-corrispettiva, e previdenziale. Si tratta, peraltro, di un tema strettamente collegato a quello della retribuzione imponibile ai fini del finanziamento della previdenza obbligatoria: infatti, il possibile riassetto del sistema previdenziale in direzione di una crescente apertura alla previdenza contrattuale, non potrebbe non prendere le mosse dal ridisegno delle rispettive basi di finanziamento, in una logica di integrazione funzionale, anziché - come avvenuto fino ad oggi - di contesa sui medesimi spazi. Rileggere, oggi, il rapporto tra retribuzione e previdenza, implica pertanto, per un verso, rivisitare le nozioni di “retribuzione imponibile ai fini contributivi” e di “minimale contributivo”; per l’altro, segnare i confini tra retribuzione e previdenza contrattuale.

2. Nonostante la tendenziale omologazione alla nozione fiscale di “reddito da lavoro”, la retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale resta agganciata, de iure condito, al concetto di “corrispettività”, alla cui stregua solo ciò che è dovuto al lavoratore a causa del contratto di lavoro è assoggettato a contribuzione previdenziale, salvo le esclusioni previste espressamente dalla legge. Ci conforta in questa affermazione - oggi per nulla scontata - l’analisi del regime contributivo delle liberalità, delle somme riconosciute a titolo di transazione novativa, e di quelle percepite a titolo risarcitorio.

2.1. Le liberalità vengono assoggettate a contribuzione, non in deroga al principio per cui solo la retribuzione è assoggettata al prelievo contributivo, ma perché non è possibile distinguere ciò che è dovuto da ciò che è liberale, se chi effettua la liberalità è colui che riceve la prestazione di lavoro.

2.2. Le somme riconosciute a titolo di transazione novativa (ossia al solo scopo di evitare l’alea del giudizio e senza riconoscimento di alcun diritto) non sono assoggettate a contribuzione. Però restano assoggettabili a contribuzione le somme che erano dovute a titolo retributivo, anche se il lavoratore vi abbia rinunciato accettando la transazione. Ciò significa, in concreto, che se il lavoratore aveva diritto a 1.000 a titolo retributivo, e riceve 800 a titolo di transazione novativa, egli dovrà accontentarsi di 800, ma i contributi verranno pagati su 1.000 (sempre che l’INPS dimostri che gli 800 spettavano effettivamente …).

2.3. Le somme percepite a titolo di risarcimento, infine, sono imponibili ai fini contributivi se sostitutive di retribuzioni (per es.: mancato pagamento di retribuzione a seguito di licenziamento illegittimo); non lo sono, se derivano dall’inadempimento di obblighi non retributivi (per es.: l’obbligo di sicurezza).

3. Un’altra idea che merita di essere ridiscussa - questa volta de iure condendo - è quella secondo cui tutto ciò che è retribuzione va assoggettato a contribuzione previdenziale obbligatoria: va superato il postulato che identifica il cd. “minimale contributivo” con l’intera retribuzione. Infatti, venuto meno, e da tempo, il sistema di calcolo “retributivo” - soppiantato da quello “contributivo” - , la pensione pubblica deve limitarsi a fornire “mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori” (art. 38 Costituzione), e non (più) a garantire il mantenimento del tenore di vita raggiunto nella vita professionale. E’ quindi ragionevole ipotizzare che la pensione pubblica venga finanziata, anziché con il prelievo sull’intera retribuzione, con un prelievo limitato alla retribuzione “sufficiente ad assicurare una ‘esistenza libera e dignitosa” (cd. “equa retribuzione” ex art. 36 Costituzione): considerata la pacifica identificazione della retribuzione “equa” con i cdd. “minimi tabellari” stabiliti dai ccnl, sarebbe quindi ragionevole riformare il sistema, limitando il “minimale contributivo” ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi, senza considerare gli ulteriori elementi (collettivi e individuali) della retribuzione.

3.1. Ciò, oltre a stabilire una coerente corrispondenza tra “retribuzione equa” e “pensione adeguata alle esigenze di vita”, risolverebbe due problemi di fondo dell’attuale assetto lavoristico e delle relazioni industriali: (a) si ridurrebbe il costo del lavoro, grazie al taglio (finalmente) strutturale del “cuneo contributivo” (si pagherebbero meno contributi obbligatori), con un corrispondente innalzamento dei salari netti; (b) si eviterebbe la nota difficoltà di individuare, per ogni “categoria”, il cd. “contratto leader” - ossia il contratto collettivo stipulato dai sindacati comparativamente più rappresentativi - . Infatti, alla stregua della ipotizzata riforma, per determinare il “minimale contributivo” sarebbe sufficiente fare riferimento ai minimi tabellari del ccnl effettivamente e legittimamente applicato, in base al principio di libertà sindacale.

3.2. Il problema dei cdd. “contratti pirata” (i ccnl che fissano retribuzioni molto più basse di quelli firmati dai sindacati “più rappresentativi”) andrebbe risolto: a) fissando un salario minimo legale, e non imponendo l’applicazione dei contratti firmati dai sindacati “più rappresentativi”; oppure b) condizionando i benefici fiscali, contributivi e normativi per le aziende, all’applicazione di tabelle salariali determinate per legge o amministrativamente - anche (ma non necessariamente) facendo riferimento ai suddetti contratti collettivi -.

4. La riforma sommariamente illustrata libererebbe risorse per la previdenza contrattuale e complementare, e per il welfare aziendale. Questi, poi, adeguatamente incentivati e promossi, potrebbero perseguire il fine del mantenimento del tenore di vita (che non è garantito dalla pensione pubblica), e della soddisfazione di bisogni - vecchi e nuovi - che il welfare pubblico non è più (o non è affatto) in grado di soddisfare.

a cura del Prof. Avv. Armando Tursi - Fieldfisher