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Politiche del lavoro e “regionalismo differenziato”


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Il rapporto tra Stato e Regioni in materia di politica del lavoro potrebbe essere al centro di importanti novità nel prossimo futuro.Nell’autunno scorso tre Regioni a statuto ordinario (Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto) hanno attivato la procedura prevista dall’art. 116, c. 3 della Costituzione al fine di ottenere “forme e condizioni particolari di autonomia” in alcune materie . Come è noto, in due delle Regioni sopra citate (Lombardia e Veneto) si sono svolti anche referendum popolari a sostegno di questa richiesta.

1.La richiesta di maggiore autonomia

La richiesta di una più ampia autonomia riguardava, in origine, moltissimi temi (basti pensare che in Lombardia la domanda sottoposta agli elettori del referendum popolare identificava ben 23 temi su cui avviare la procedura, ridotti a 14 nella risoluzione successivamente approvata dal Consiglio regionale).

Poco prima delle elezioni politiche del 4 marzo scorso, la procedura ha compiuto un primo passo formale significativo. In data 28 febbraio 2018, sono stati sottoscritti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dai rappresentanti delle tre Regioni sopra citate “Accordi preliminari” ( vd. allegati a pie di pagina ), di durata decennale, contenenti i principi generali che guideranno l’attribuzione, nelle fasi successive, di più ampie competenze. 

Gli Accordi restringono l’area del confronto ad un campo più ristretto . Tra queste spicca la materia “politica del lavoro” che ricomprende, quanto meno, l’area del “collocamento della manodopera”, dei “servizi per l’impiego” e delle “politiche attive del lavoro”.

2. I principi riguardanti le politiche del lavoro

L’allegato agli Accordi riguardante le politiche del lavoro, invero assai sintetico, traccia il sentiero per il successivo confronto lungo tre filoni:

- riaffermato l’obiettivo condiviso di assicurare i livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale e riconfermata l’autonomia legislativa ed organizzativa delle Regioni in materia di politiche attive del lavoro (ma non poteva essere altrimenti, dato l’attuale quadro costituzionale), si riconosce la necessità di destinare risorse finanziarie stabili al settore; è un punto di particolare rilievo, poiché la mancanza di risorse nazionali aventi carattere strutturale (e non derivanti da programmi o progetti temporanei) è stata spesso segnalata come una delle cause della fragilità del nostro sistema di servizi per l’impiego e politica attiva del lavoro;

- si affronta, inoltre, un nodo molto delicato sul piano dell’organizzazione dei servizi operativo: nell’allegato si manifesta la volontà di rendere coerenti le durate delle prestazioni di politica attiva e di politica passiva riconoscendo alle regioni la potestà legislativa di “regolare ed integrare le prestazioni di politica attiva” poste in essere dallo Stato (basti pensare, ad esempio, all’assegno di ricollocazione la cui attuazione ha sollevato tante difficoltà nel raccordo tra l’azione del Ministero del lavoro e dell’Anpal, da un lato, e l’azione delle Regioni, dall’altro);

- le parti convengono, infine, sull’opportunità di attribuire alle Regioni la competenza legislativa per “l’introduzione e la disciplina di misure complementari di controllo, con riferimento alle materie oggetto di regolazione regionale”. Onde evitare sovrapposizioni tali attività dovranno essere svolte dalle Regioni in raccordo con il competente Ispettorato Territoriale del lavoro.

Si profilano dunque, seppur con cautela, prime aperture al “regionalismo differenziato” nel campo delle politiche del lavoro. La volontà di sottoscrivere gli Accordi in tempi rapidi (prima delle elezioni politiche) ha forse sacrificato l’ampiezza e la profondità dei contenuti. Il processo di ampliamento dell’autonomia regionale necessita, quindi, di ulteriori fasi di interlocuzione.

Pier Antonio Varesi, Ordinario di Diritto del lavoro - Università cattolica Piacenza