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Cassazione: se la contestazione disciplinare è generica anche in ordine ad uno solo degli addebiti mossi al lavoratore, il licenziamento è illegittimo


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Con la sentenza n. 19632 del 24.07.2018, la Cassazione afferma che, in caso di licenziamento disciplinare, qualora la contestazione contenga due addebiti e soltanto uno sia adeguatamente specifico, mentre l’altro risulti generico, il recesso deve essere dichiarato illegittimo.

Il fatto affrontato

La lavoratrice impugna giudizialmente il licenziamento per giusta causa irrogatole per aver alterato a penna i dati risultanti dal passaggio del badge che rileva automaticamente le presenze in ufficio.
A seguito di ciò, la Corte d’Appello accoglie la suddetta domanda sul presupposto che la contestazione disciplinare risultava troppo generica in ordine all’addebito mosso alla dipendente circa la finalità della condotta tenuta, volta ad ottenere dall’azienda compensi non dovuti.

La sentenza

La Cassazione, confermando quanto stabilito dalla Corte di Appello, afferma che, ai sensi dell'art. 7, comma 2, della l. 300/1970, ai fini della legittima irrogazione di una sanzione disciplinare si impone la previa contestazione dell'addebito, da intendersi come esposizione dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto a base della sanzione da irrogare.

La contestazione disciplinare deve, per i Giudici di legittimità, delineare l'addebito, come individuato dal datore, e quindi la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo da tracciare il perimetro dell'immediata attività difensiva del lavoratore.

Conseguentemente per essere specifica, secondo la sentenza, deve fornire le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari.

Nel caso di specie, quindi, la contestazione deve essere considerata parzialmente generica, posto che se era dettagliata nell'indicare le date e gli orari che erano risultati alterati, non lo era altrettanto in ordine al presupposto che le modifiche sarebbero state finalizzate ad ottenere il pagamento di compensi non dovuti, tanto da impedire alla prestatrice di predisporre una difesa circostanziata.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società, confermando il diritto della lavoratrice a vedersi riconosciuta l’indennità prevista dall’art. 18, comma 5, l. 300/1970.

A cura di Fieldfisher