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Cassazione: licenziato per giusta causa il lavoratore che non comunica il proprio stato di detenzione


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Con la sentenza n. 24976 del 07.10.2019, la Cassazione afferma che la mancata comunicazione da parte del lavoratore del proprio stato di detenzione integra una giusta causa di licenziamento, stante la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sul dipendente nell'esecuzione del rapporto.

Il fatto affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il licenziamento per giusta causa irrogatogli perché, dopo essere stato arrestato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, aveva comunicato al datore il proprio stato di detenzione solo al 14° giorno di assenza dal lavoro.
La Corte d’Appello respinge la predetta domanda, sul presupposto che l'aver nascosto per due settimane lo stato di privazione della libertà personale costituiva violazione degli obblighi di correttezza e buona fede.

La sentenza

La Cassazione - confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello - afferma, preliminarmente, che il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, all'entità della mancanza (considerata sia da un punto di vista oggettivo che nella sua portata soggettiva), ai moventi, all'intensità dell'elemento intenzionale e al grado di quello colposo.

Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, gli artt. 2104 e 2105 c.c. - richiamati dalla disposizione del successivo art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari - non vanno interpretati restrittivamente e, pertanto, non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari.

Applicando detti principi al caso di specie, la Suprema Corte respinge il ricorso del lavoratore, sul presupposto che la condotta dal medesimo tenuta - imponendo un giudizio prognostico negativo circa la correttezza del futuro adempimento - risulta di una gravità tale da giustificare il recesso datoriale.

A cura di Fieldfisher