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Cassazione: legittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuta, senza motivo, di rendere la prestazione


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Con la sentenza n. 6789 del 19.03.2018, la Cassazione ha affermato la legittimità di un licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente che si sia rifiutato di rendere la prestazione lavorativa richiesta, adducendo delle motivazioni di salute risultate, poi, inesistenti.

Il fatto affrontato

Il dipendente propone ricorso giudiziale diretto a far accertare l'illegittimità sia di una trattenuta operata sul suo stipendio che del licenziamento per giusta causa comminatogli dalla datrice, a seguito di lettera di contestazione con cui gli era stato addebitato di essersi rifiutato di prestare attività lavorativa su di una pressa, senza giustificato motivo, all'inizio di un turno e di non essersi poi recato dal direttore di stabilimento, benché convocato, per rendere spiegazioni.
La società si costituisce, affermando come le motivazioni di salute addotte dal prestatore quale fondamento del suo rifiuto fossero del tutto infondate, posto che nel macchinario in questione si lavoravano pezzi aventi un peso massimo di 2/3 Kg, ben inferiore a quello di 5 Kg, limite di cui l’operaio beneficiava per prescrizione medica.

La sentenza

La Cassazione, confermando la statuizione della Corte d’Appello, preliminarmente, ribadisce che la giusta causa di licenziamento è una nozione legale, che non rende vincolanti le previsioni del contratto collettivo per il giudice. Quest’ultimo può, così, ritenere configurabile una giusta causa anche in presenza di un grave inadempimento o comportamento del lavoratore contrario a norme di comune etica o del vivere civile che abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore e lavoratore.

Secondo la sentenza rientra, pertanto, pacificamente in questa categoria la grave insubordinazione ai superiori, consistente nel rifiuto palesemente ingiustificato di rendere la prestazione richiesta.
Posizione aggravata dalla circostanza che il lavoratore abbia rifiutato, altresì, di rendere spiegazioni in ordine al proprio comportamento contrario alle norme di buona fede che regolano anche il contratto di lavoro.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto dal dipendente, dichiarando legittimo il recesso arrogatogli ai sensi degli artt. 2104 e 2106 c.c. e della declaratoria contenuta nel CCNL applicabile che prevede la sanzione espulsiva a fronte di comportamenti di grave insubordinazione da parte dei lavoratori.

A cura di Fieldfisher