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Cassazione: la nullità del licenziamento per causa di matrimonio non è invocabile dai lavoratori uomini


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Con la sentenza n. 28926 del 12.11.2018, la Cassazione afferma che non è discriminatoria la legge che commina la nullità per il licenziamento delle lavoratrici a “causa di matrimonio”, non prevedendo una tutela analoga per i colleghi uomini. La diversità di trattamento risulta giustificata da un’esigenza di tutela della maternità, garantita dalla Costituzione alla donna in virtù della sua essenziale funzione familiare.

Il fatto affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli pochi mesi dopo le nozze, chiedendo la declaratoria di nullità del recesso per causa di matrimonio.
A fondamento della propria domanda, il medesimo invoca l'applicabilità dell'art. 35 del D.L. 198/2006, sottolineando che la previsione della relativa tutela unicamente a favore della donna costituirebbe una discriminazione tra sessi, sia sotto il profilo costituzionale (art. 37 Cost.) che sotto quello dell'ordinamento europeo (art. 23, secondo comma, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'UE).

La sentenza

La Cassazione, confermando quanto stabilito dalla Corte di Appello, afferma che la mancata estensione anche ai lavoratori uomini, della norma che prevede la nullità del licenziamento, fino a prova contraria, dal giorno di richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ad un anno dopo la celebrazione delle nozze, non è contraria né alle norme europee né a quelle costituzionali.

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la predetta norma, contenuta nell’art. 35 del D.L. 198/2006, è finalizzata principalmente a tutelare la maternità, riservando alla donna una peculiare funzione in ambito familiare, che riesca ad assicurare anche al figlio un’adeguata protezione.

Per la sentenza, la ratio sottesa alla disciplina in esame è da rinvenirsi nella disposizione contenuta nell’art. 37 della Cost. - cui si ispira anche il Codice delle Pari Opportunità - il quale non mira a tutelare solo la salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che si svolge fra madre e figlio subito dopo il parto.
La maternità, invero, non deve tradursi in un impedimento all’effettiva parità di diritti per la donna lavoratrice.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal lavoratore, confermando la legittimità del recesso al medesimo irrogato.

A cura di Fieldfisher