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Cassazione: l’adibizione a mansioni usuranti non fa scattare il diritto al risarcimento per mobbing


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Con la sentenza n. 5749 del 27.02.2019, la Cassazione afferma che incombe sul lavoratore la prova circa la sussistenza di un nesso di causalità tra le mansioni svolte e la patologia insorta, con diritto al risarcimento del danno solo ove venga dimostrata, in termini di ragionevole certezza, la nocività dell’ambiente di lavoro per violazione dell’art. 2087 c.c. da parte dell’imprenditore.

Il fatto affrontato

Il lavoratore ricorre giudizialmente al fine di richiedere il risarcimento dei danni subiti per effetto dei comportamenti mobbizzanti adottati nei suoi confronti dalla società.
A fondamento della propria domanda, il medesimo deduce che il datore di lavoro lo aveva volutamente adibito a mansioni non rientranti nel suo livello di appartenenza, che gli avevano provocato, da un lato, una dermatite allergica da contatto e, dall’altro, una sindrome depressiva.

La sentenza

La Cassazione, confermando la statuizione della Corte d’Appello, afferma che incombe sul prestatore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra.
La suddetta prova deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità.

Per i Giudici di legittimità, inoltre, anche la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" non implica necessariamente che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro.
Infatti, secondo la sentenza, tali eventi possono dipendere anche dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.

Ne consegue che, ai fini della responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., non è sufficiente che la malattia abbia un’origine professionale, ma è necessario che in relazione ad essa ed alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro.

Su tali presupposti, la Suprema Corte, ritenendo non adempiuto il predetto onere probatorio da parte del lavoratore, respinge il ricorso proposto dal medesimo.

A cura di Fieldfisher