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Cassazione: ammissione del credito del lavoratore allo stato passivo della società datrice


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Con la sentenza n. 15379 del 06.06.2019, la Cassazione afferma che non si può escludere dal passivo del datore fallito il credito del dipendente inerente alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla dichiarazione di insolvenza, soltanto perché il lavoratore non ha offerto la propria prestazione alla società dopo la sentenza definitiva che ha condannato l’azienda a reintegrarlo (sul medesimo tema si veda anche: Fallimento e rapporti di lavoro: relazioni intercorrenti e questioni processuali).

Il fatto affrontato

Il lavoratore - ottenuta una sentenza, passata in giudicato, di accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria - a seguito del fallimento dell’azienda, propone domanda di insinuazione allo stato passivo per il suo credito privilegiato, pari ad € 144.062,44, relativo al mancato pagamento delle retribuzioni maturate dalla data dell’illegittimo recesso a quella di dichiarazione di insolvenza.
Il Tribunale rigetta la predetta domanda perché il lavoratore non aveva fornito la prova di aver offerto - dopo l’emanazione della sentenza che aveva previsto la sua reintegra - la propria prestazione alla società datrice.

La sentenza

La Cassazione, ribaltando quanto stabilito dalla pronuncia di merito, afferma che, in ipotesi di reintegra giudiziale del lavoratore illegittimamente licenziato, non sussiste alcuna necessità di una messa in mora da parte del medesimo nei confronti del proprio datore.
Ciò in quanto la tutela prevista dell'art. 18 della I. 300/1970 non può essere correttamente assimilata all’ipotesi di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, che porta alla sua conversione a tempo indeterminato, stante la natura ricognitiva della dichiarazione di nullità

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, il lavoratore già con l’impugnazione stragiudiziale del recesso illegittimo - a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione manifestato con l'intimazione del licenziamento - compie l'offerta della sua prestazione lavorativa richiedendo il ripristino del rapporto.
Per la sentenza, spetta piuttosto al datore, per l'effettivo ripristino del rapporto, l'onere di invitare il lavoratore alla ripresa del servizio, con decorrenza da tale momento del termine di trenta giorni entro cui il dipendente deve rientrare in azienda.

Su tali presupposti, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dal lavoratore, affermando il diritto del medesimo a vedere il proprio credito ammesso allo stato passivo del Fallimento dell’azienda datrice.

A cura di Fieldfisher